Microchirurgia

Fare un intervento in “microchirurgia” significa utilizzare il microscopio chirurgico tramite un approccio il più limitato possibile. La pelle viene incisa, ma l’entità dello scollamento dei tessuti per raggiungere la colonna vertebrale viene limitato al minimo indispensabile. Il microscopio chirurgico, infatti, grazie all’ingrandimento e all’illuminazione, permette di vedere chiaramente anche in piccoli spazi, e di distinguere tra di loro tessuti che possono essere facilmente scambiati ad occhio nudo, come ad esempio un’ernia del disco e una radice nervosa. Gli strumenti chirurgici devono essere, ovviamente, di dimensioni adeguate, e il chirurgo deve essere adeguatamente addestrato. La limitatezza dello scollamento dei tessuti garantisce un minor dolore postoperatorio e minori perdite ematiche, con un conseguente recupero più rapido. Il concetto di “mini-invasività” è proprio questo, limitare cioè l’impatto sul paziente in termini di dolore, perdite ematiche, distruzione di tessuti vitali, garantendo però un risultato clinico soddisfacente e duraturo.

Si tratta della tecnica chirurgica più usata nella asportazione della ernia del disco lombare . Si avvale di sistemi di ingrandimento, di solito il microscopio.
Tecnica chirurgica: l’intervento si realizza con una incisione di pochi cm (3-4 di solito) sulla pelle nella regione lombare posteriore a il livello dell’ernia; vengono poi staccati alcuni fascetti muscolari dall’osso creando uno spazio di lavoro dove viene posto un divaricatore. Quindi si asporta una parte della porzione posteriore della vertebra (lamina) e del legamento. Si crea una finestra che permette di accedere al canale spinale dove si trova la radice nervosa compressa dall’ernia. Spostando delicatamente la radice si localizza l’ernia che può essere sfilata con micro pinze ed asportata insieme a parti di disco adiacenti malate .
L’intervento dura circa un’ora.
Di solito il primo giorno postoperatorio si può riprendere la marcia e progressivamente la normale attività nelle 4 settimane successive. Per i lavori più pesanti è necessario un periodo più lungo, di 8 settimane. Di solito non è indicato l’uso del busto.

 

Chirurgia Mini-invasiva

Gli approcci mini-invasivi mirano a preservare l’integrità delle strutture muscolari e articolari che contribuiscono al normale funzionamento della colonna. Sono approcci che sfruttano dei piani anatomici già esistenti (ad esempio lo spazio virtuale tra due muscoli separati, identificabile dalla guaina di tessuto connettivo che riveste i muscoli stessi, lo spazio virtuale retroperitoneale, retropleurico). Essendo meno “distruttivi”, determinano minori perdite di sangue e un più rapido recupero funzionale del paziente. A seconda dell’obiettivo del chirurgo è possibile usare questi approcci da soli o combinandoli con altri.

Per asportare le ernie cervicali, molli o dure (osteofiti) è spesso usata la via anteriore attraverso la zona antero-laterale del collo. Asportando tutto il disco è necessario aggiungere il blocco e la fusione delle vertebre cervicali cioè l’artrodesi cervicale.

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Attraverso un’incisione sulla pelle al lato del collo, si spostano delicatamente le strutture sottostanti (esofago, vena giugulare, arteria carotide, trachea, nervi) e tramite una strada “naturale”, senza distruggere alcuna struttura muscolare o legamentosa, si ha accesso alla alla parte anteriore della colonna cervicale. Vengono quindi posizionati dei divaricatori che creano un canale di lavoro sicuro, e con l’ausilio del microscopio si può si asportare il disco intervertebrale e, tramite lo spazio creato, togliere l’ernia, l’osteofita, o entrambi, liberando dalla compressione il midollo cervicale e i nervi interessati dalla compressione.
Nello spazio che resta tra le vertebre viene inserito, al termine della procedura di decompressione, un innesto fatto di materiale sintetico, PEEK o titanio, per ripristinare e mantenere la giusta distanza tra le due vertebre e favorire la fusione ossea. Può essere aggiunta una placca anteriore fissata con viti alle vertebre. L’intervento ha una durata circa 60 minuti per un singolo livello (ad esempio: ernia del disco C5C6).
Con lo stesso approccio è possibile, tramite un incisione un po’ più ampia, rimuovere non solo il disco intervertebrale, ma anche un intero corpo vertebrale cervicale. Questa procedura può essere necessaria in caso di tumori, deformità, o estesa compressione sul midollo cervicale di cui sia responsabile un’intera vertebra cervicale.
Nel postoperatorio, molto simile per i diversi casi descritti, il paziente può alzarsi il giorno successivo all’intervento, indossando un collare di protezione da mantenere per alcune settimane, a discrezione del chirurgo.

Questo intervento viene eseguito quando è necessario accedere alle vertebre toraciche nella loro parte anteriore o anterolaterale. Alcuni esempi sono: gravi fratture del corpo vertebrale, asportazione di tumori, e il caso più frequente delle ernie del disco toraciche.
Lo scopo finale dell’intervento è di rimuovere la compressione sul midollo toracico, o la malattia neoplastica, o di sostituire un corpo vertebrale fratturato, e di far “fondere” le vertebre, mantenendole capaci di sostenere il normale carico nella vita di tutti i giorni. La colonna toracica anteriore può essere raggiunta tramite strade diverse, che dipendono dal livello cui si trova l’obiettivo chirurgico. Per il tratto toracico alto è possibile accedere ai corpi vertebrali tramite l’asportazione di parte dell’osso sternale, attraversando un “corridoio” chirurgico che sfrutta lo spazio virtuale presente tra le grandi arterie e vene che arrivano o partono dal cuore. Per il tratto toracico medio e inferiore, invece, l’accesso avviene dalla zona laterale del torace, sfruttando lo spazio tra le coste. In alcuni casi può essere necessario rimuovere un piccolo pezzo di costa. L’accesso attraverso la parte laterale del torace sfrutta lo spazio virtuale tra il polmone e la parete interna del torace, che porta proprio alla faccia laterale della colonna vertebrale. Sono necessari speciali sistemi di divaricazione, e nel caso di apertura del canale vertebrale è utilizzato il microscopio chirurgico. La “fusione” o “artrodesi”, nel caso delle ernie del disco toracico, viene effettuata rimuovendo completamente il disco intervertebrale e inserendo tra le due vertebre uno spessore. Tale spessore può essere sintetico o ricavato dalla porzione di costa prelevata durante l’accesso, quando disponibile. Come ulteriore garanzia di stabilità può essere aggiunta una placca avvitata sui corpi vertebrali sopra e sottostanti il disco sostituito. Talvolta, quando non è possibile montare la placca laterale, è necessario inserire viti nei peduncoli vertebrali dalla regione posteriore della schiena.
Nel caso di rimozione dell’intero corpo vertebrale, per fratture o tumori, viene inserita al posto della vertebra asportata una protesi di dimensioni adeguate, assicurata o con la placca laterale o con le viti posteriori già descritte.
Il postoperatorio di questo intervento prevede una stretta sorveglianza in terapia intensiva per le prime ore, il mantenimento di un drenaggio toracico per 2/3 giorni, e la mobilizzazione in piedi una volta rimosso il drenaggio.

 

Chirurgia Open

E’ l’approccio tradizionale, con l’esposizione completa degli elementi ossei posteriori della colonna e lo scollamento completo delle strutture muscolari posteriori. Si utilizza obbligatoriamente nelle deformità coronali (scoliosi), e nei casi in cui sia necessario accedere direttamente al canale vertebrale (patologia compressiva degenerativa, tumorale, infezioni, etc).

Questa tecnica è molto usata per unire le vertebre cervicali superiori (C1 e C2), ma in alcuni casi viene usata per i livelli inferiori fino a C7 o T1, sia da sola che aggiunta all’intervento anteriore. Attraverso un’incisione sulla cute posteriore del collo, estesa sui segmenti da bloccare, si espongono le strutture ossee e muscolari posteriori. I muscoli dalla parte posteriore del collo vengono quindi scollati dalla superficie ossea delle vertebre (processi spinosi e lamine), fino alla superficie posteriore delle articolazioni posteriori delle vertebre cervicali (articolazioni zigoapofisarie). Tramite delle viti infisse sulle articolazioni, unite da barre longitudinali, viene bloccato il tratto cervicale interessato. Tramite la preparazione della superficie ossea esposta e il posizionamento di autotrapianto osseo, si ottengono le condizioni ideali per ottenere la fusione vertebrale, e cioè l’unione dei segmenti vertebrali immobilizzati mediante produzione di osso, come nel caso di una frattura.
Può essere effettuata una decompressione del midollo cervicale e delle radici nervose, asportando parte della articolazione o delle lamine posteriori. La durata dell’intervento è di circa 2 ore nei casi più semplici, ma può allungarsi in casi complessi o in fusioni che coinvolgano molti segmenti. Nel postoperatorio il paziente può alzarsi il giorno successivo all’intervento, e deve indossare un collare di protezione per alcune settimane, a discrezione del chirurgo.

Questo intervento si esegue prevalentemente per deformità (cifosi, scoliosi) o per traumi.
L’incisione è sulla schiena, mediana. I muscoli sono quindi separati dalle strutture ossee posteriori, e si identificano le articolazioni posteriori (zigoapofisarie) tra le vertebre toraciche, e i processi trasversi. Tramite l’inserimento di viti peduncolari nelle vertebre e la rimozione di parte delle componenti posteriori delle vertebre toraciche interessate dall’intervento, è possibile correggere la deformità o stabilizzare fratture. Oltre alle viti possono essere utilizzati uncini o bande di tessuto. Per ottenere una fusione efficace e duratura, indispensabile per ridurre al minimo le possibilità di fallimento dell’impianto, è necessario aprire le articolazioni posteriori e preparare adeguatamente le superfici ossee disponibili. Tale operazione non è purtroppo effettuabile con approccio percutaneo. Il decorso postoperatorio prevede la mobilizzazione in piedi il giorno successivo all’intervento. In caso di interventi lunghi o complessi o di pazienti fragili, può essere necessario protrarre il riposo a letto per alcuni giorni. La tenuta del sistema di fissazione interno, ad ogni modo, è immediata. In alcuni casi è indicato indossare un corsetto per alcuni mesi, da verificare periodicamente con il chirurgo.

Questo intervento si effettua per tutte quelle condizioni in cui le normali connessioni tra le vertebre, dischi intervertebrali e articolazioni posteriori siano alterate. Le cause più frequenti di tali alterazioni sono degenerative (artrosi, artrite, degenerazione del disco intervertebrale), ma possono essere anche traumatiche, neoplastiche, infettive o infiammatorie.
Questa situazione, denominata “instabilità”, può diventare oggetto di trattamento chirurgico qualora sia ritenuta responsabile di segni e sintomi del paziente. A volte la colonna è stabile, ma il paziente mostra comunque sintomi e segni neurologici da “compressione”. In questi casi può essere necessario rimuovere alcune parti delle vertebre, provocando un’instabilità che richiede l’intervento di artrodesi (ad esempio alcuni casi di stenosi lombare).
In molti casi, pertanto, può essere necessario ripristinare la corretta tenuta del rachide con l’ausilio di sistemi di fissaggio interni che stabilizzino la colonna, promuovendone la fusione. La fusione solida, e quindi l’immobilizzazione del tratto di colonna interessato dalla patologia, è l’unico sistema attualmente disponibile che garantisca dei risultati certi e duraturi.
Questo intervento viene effettuato tramite un’incisione mediana sulla cute della regione lombare. Tramite questa incisione i muscoli vengono separati dalle strutture ossee, che vengono esposte fino alle articolazioni posteriori e ai processi trasversi. Le viti peduncolari vengono quindi impiantate e fissate con una barra longitudinale su ogni lato. Le articolazioni posteriori devono essere aperte e le superfici ossee adeguatamente preparate per favorire la fusione ossea. Oltre alla fusione posterolaterale è possibile, nello stesso intervento, promuovere la fusione tra i corpi vertebrali rimuovendo il disco intervertebrale e inserendo un supporto tra le due vertebre. Questa procedura, definita “fusione intersomatica”, ha il vantaggio di ripristinare la corretta distanza tra le vertebre, e di decomprimere indirettamente le radici nervose nei forami intervertebrali o nel canale.

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Chirurgia di revisione

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un “boom” di chirurgia vertebrale. Questa chirurgia è complessa, ancora imperfetta, e di conseguenza sono aumentati gli insuccessi post-chirurgici. La causa di questi insuccessi può essere una errata diagnosi iniziale oppure una cattiva valutazione della biomeccanica della colonna nella sua globalità. In alcuni casi il peggioramento avviene nell’arco di molto tempo, lentamente, dovuto ad un invecchiamento accelerato delle strutture adiacenti all’intervento. Spesso una rivalutazione della storia del paziente permette di effettuare interventi chirurgici di revisione che hanno buoni risultati nel 70% dei casi. Naturalmente la chirurgia di revisione è una chirurgia complessa, da effettuarsi in centri di alta specializzazione per la chirurgia vertebrale. E’ importante inoltre saper riconoscere quei casi in cui non sono presenti target chirurgici, e in cui la chirurgia è pertanto sconsigliata. Questa situazione, denominata Failed Back Syndrome, viene di solito trattata conservativamente con farmaci e fisioterapia in quanto il risultato chirurgico, laddove si ritenga presente un target chirurgico, non è mai garantito.
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